Di come la miniaturizzazione possa giovare all’insegnamento musicale nei casi di disturbi specifici di apprendimento

Pubblicato il Autore Marco Lazzari

Mi è stato chiesto di scrivere la prefazione a un libro tratto dalla tesi di master di un mio tesista (bravo) che l’anno scorso ha seguito il master in “Didattica e psicopedagogia per i Disturbi Specifici di Apprendimento” (dell’Università di Bergamo). L’editore Artestampa, che ringrazio, mi ha lasciato il diritto di pubblicare online lo scritto, che riproduco qui sotto.

La scheda editoriale del libro è disponibile all’indirizzo: http://www.artestampaweb.it/scheda&id=297

Il riferimento bibliografico alla prefazione è:

Marco Lazzari (2013), Di come la miniaturizzazione possa giovare all’insegnamento musicale nei casi di disturbi specifici di apprendimento. In: Carmelo Farinella, Musica a scuola – Disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), Modena: Edizioni Artestampa (pp. 9-16) ISBN: 9788864622019

Il testo è anche scaricabile in formato PDF.

Di come la miniaturizzazione possa giovare all’insegnamento musicale nei casi di disturbi specifici di apprendimento

Quando ero giovane, ero solito addormentarmi piuttosto tardi. Ciò nonostante, nelle ore d’insonnia esercitavo poca fantasia e capacità d’immaginare il futuro.

Così, nei giorni in cui, negli ultimi mesi degli anni Settanta, cominciavo a programmare calcolatori usando una perforatrice di schede, mai sarei riuscito neppure a immaginare quali rivoluzioni sarebbero avvenute di lì a poco nel mondo degli elaboratori, sia riguardo alla struttura, sia al tipo di applicazioni delle macchine.

Il primo calcolatore (così si diceva) che mi capitò di programmare era grande come una casa. Peraltro, lo dico senza averlo mai visto: l’interfacciamento (per usare un termine che lo Zingarelli attesta in uso nella lingua scritta dal 1982) tra il computer e i suoi utenti avveniva inserendo in un cassettino il pacco di schede (input) e andando più tardi (ore o giorni) a ritirare da uno scaffale il listato e i risultati stampati su modulo cartaceo continuo (output). Più che di una interfaccia uomo–macchina[1], si trattava di un’interfaccia uomo–uomo–macchina, dato che il pacco di schede era preso in consegna da un operatore che lo caricava nel lettore di schede e che poi recuperava la stampe per distribuirle sugli scaffali, a disposizione degli utenti. Dunque, di tutto l’insieme di apparecchiature hardware gli utenti vedevano soltanto la perforatrice di schede; non v’è tuttavia motivo di non credere che il calcolatore fosse grande come una casa.

Era pensabile all’epoca che gli studenti delle nostre scuole potessero avere ciascuno tra le mani un computer non più grande di uno scartafaccio? Forse neppure Seymour Papert, in quei frangenti alle prese con la stesura di Mindstorms (1980), avrebbe osato tanto.

Ma proprio tra il finire degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta si giungeva a uno snodo cruciale della storia dei sistemi informatici: il processo di miniaturizzazione, da sempre attivo rispetto alle dimensioni dei sistemi di elaborazione e ai loro costi, era giunto a un punto tale per cui l’industria informatica era ormai in grado di produrre apparecchiature le cui dimensioni permettevano loro di essere poste su una scrivania senza pregiudizio della sua stabilità e di essere acquistate da un ufficio o da un diligente padre di famiglia senza pregiudizio del bilancio societario o familiare. Era nato il personal computer.

I calcolatori grandi come case dei primi decenni della storia del mondo digitale cominciavano a cedere il passo a macchine più piccole, ma altrettanto performanti.

Il computer, da quei primi decenni ai giorni nostri, passa per una lenta mutazione che nell’immaginario collettivo lo trasforma da sistema di calcolo con dispositivi di comunicazione da e verso l’esterno (per l’input e l’output dei dati), a sistema di comunicazione con incorporati dispositivi di calcolo per l’eventuale elaborazione dei flussi informativi (Lazzari, 2006).

Con il computer, cambia anche il suo Utente Medio: mentre nei primi decenni della storia dell’informatica l’utenza dei calcolatori elettronici è costituita da specialisti informatici o del campo applicativo[2], ora l’utente medio è l’uomo della strada[3]. Di conseguenza, cambiano anche le applicazioni: con il personal computer nascono i programmi per la produttività individuale[4], con il progredire delle prestazioni delle linee di connessione si diffondono i servizi di condivisione di materiali multimediali, con la diffusione dei dispositivi di connettività nomadica e l’affermarsi della telefonia intelligente e dei tablet si impone la nuova tipologia operativa delle App.

Tutto ciò in virtù di due proprietà chiave dei moderni sistemi di elaborazione delle informazioni, rese possibili dalla miniaturizzazione della componentistica: la portabilità e la trasparenza. Con portabilità indirizziamo due aspetti: la disponibilità dei medesimi programmi software in diversi ambienti operativi (per esempio, su desktop con sistema operativo Windows, MacOs e Linux e su tablet in ambiente iOS e Android) e la possibilità conseguente di usare i programmi in mobilità. Con trasparenza pensiamo alla possibilità dei dispositivi informatici di scomparire immersi all’interno di sistemi più complessi[5] o di proporsi con implementazioni spazialmente discrete, non ingombranti né invasive.

Entrambe le proprietà hanno un grande impatto sugli usi che l’utente comune può fare degli elaboratori. La portabilità permette l’uso in mobilità, in qualunque luogo e in ogni momento, cosicché lo stesso dispositivo può essere sfruttato, per dirla alla Bronfenbrenner (1979), in diversi microsistemi ecologici (per esempio, in ufficio, a scuola, a casa) e anche per stimolare interazioni mesosistemiche (per esempio, tra famiglia e scuola) – impensabile ai tempi della programmazione con schede. La trasparenza consente l’introduzione dei dispositivi di elaborazione negli ambienti d’uso in maniera estremamente discreta.

Ciò ha indubbie valenze positive nel caso di nostro interesse: nel momento in cui i dispositivi informatici si propongono come presidii assistivi per il sostegno alle persone con disturbi specifici dell’apprendimento, la disponibilità di hardware di dimensioni ridotte e mascherabili rende possibile scendere sotto la soglia dell’accettabilità psicologica degli strumenti da parte degli utenti. Basta una minima frequentazione delle nostre scuole per scoprire che il bambino dislessico spesso patisce come stigma la presenza di un ingombrante personal computer sul banco, laddove il più discreto tablet lo fa sentire a suo agio e addirittura à la page.

Non solo: se certo l’informatica rende disponibili strumentazioni e programmi atti a compensare il disturbo (Stella e Grandi, 2011), l’offerta di sistemi a basso prezzo può consentire di spostare la didattica verso procedure operative diverse da quelle tradizionali, che coinvolgano l’intera classe e che non evidenzino il disturbo, in un’ottica coerente con i principi della Progettazione Universale, che la stessa Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità invita ad adottare nel progetto di ambienti, prodotti, programmi e servizi (CUD, 1997; ONU, 2007). In questo senso si può superare la logica delle tecnologie assistive e delle soluzioni dedicate, progettando percorsi formativi ispirati allo Universal Design for Learning (Rose e Meyer, 2002) flessibili ed equi nelle possibilità di accesso ai processi di apprendimento; dove l’equità si misura in proporzione all’abbattimento delle barriere in partenza e al grado di partecipazione ai contesti educativi, senza adattamenti a posteriori o alternative che escludano (Baroni e Lazzari, 2013; CAST, 2011), fatte salve le opportunità legate alla personalizzazione degli apprendimenti. Le evidenze della letteratura scientifica dicono che è possibile individuare metodologie d’insegnamento rivolte a tutta la classe che funzionano bene con tutti gli alunni e, nel contempo, forniscono un alto valore aggiunto per soggetti di più basso rendimento (Calvani, 2012).

Così l’informatica si ritrova a essere alleata di quanti si sforzano di proporre una didattica adeguata a sfidare i disturbi specifici dell’apprendimento. Feconda alleanza, ma alleanza e non, come molti genitori e insegnanti incautamente spesso si attendono, bacchetta magica. Non c’è soluzione pronta, non c’è ricetta valida per tutti. Come al solito, la tecnologia può aiutare la didattica, ma non senza metodologia, come ricorda un gustoso filmato reperibile su YouTube (http://www.youtube.com/watch?v=IJY-NIhdw_4)[6]. E come ci ricorda, soprattutto, molta letteratura scientifica misconosciuta, la cui voce è sovrastata dal clamore mediatico con il quale le tecnologie informatiche sono proposte come il toccasana per l’insegnamento e l’apprendimento. Nella realtà del mondo della ricerca, numerose pubblicazioni concordano nell’indicare che i media di per sé hanno modesto impatto nei processi di apprendimento (si vedano fra gli altri Bernard et al., 2004; Fabos e Young, 1999; Russell, 2001); che per esempio la multimedialità può addirittura essere dannosa nel momento in cui induce un sovraccarico cognitivo (Mayer, 2005; Clark e Lyons, 2010; Clark, Nguyen e Sweller, 2006); che l’ipertestualità può avere effetti di disorientamento percettivo e cognitivo e che offre benefici limitati in campo educativo (Dillon e Gabbard, 1998); che nonostante gli sforzi di molti docenti, il podcasting stenta ad affermarsi in quanto tale poiché gli studenti non sono inclini ad adattarsi all’uso dei feed RSS (Lee, Miller e Newnham, 2009).

Da tempo, invece, dovremmo sapere che la qualità dell’insegnante è la principale variabile che influenza i risultati degli studenti (OECD, 2005), che l’impatto più significativo sull’apprendimento è generato dalle metodologie e principalmente dal clima e dalla qualità delle interazioni che inducono (Hattie, 2009) e che le variabili ambientali più significative rispetto alla soddisfazione e al successo apprenditivo degli studenti sono la qualità delle interazioni tra pari e quella delle interazioni con i docenti (Astin, 1993).

Dunque, il solo inserimento delle tecnologie nelle scuole non ha di per sé evidenti effetti migliorativi significativi e rischia anzi di aumentare il digital divide preesistente tra alunni che hanno accesso alle tecnologie e competenze d’uso e alunni che non ne dispongono. Si tratta però di una conclusione in termini generali e ciò non toglie che per problemi specifici e per casi particolari e ben congegnati possa andar bene. Ma ciò che conta è l’organizzazione della didattica e l’integrazione delle tecnologie in un progetto educativo contestualizzato e orientato all’obiettivo, che tenga conto dei problemi e che poggi sulle competenze metodologiche e tecnologiche dei docenti. Conta che gli insegnanti da un lato si approprino delle competenze informatiche necessarie per sfruttare al meglio gli strumenti a loro disposizione, dall’altro che esplorino attentamente i bisogni reali degli utenti per progettare ambienti di apprendimento adeguati, dove la complessità dei compiti sia tarata in funzione delle competenze degli allievi e dove sia possibile una transizione progressiva dalle dimostrazioni alla pratica attiva (Calvani, 2012). E che l’uso delle tecnologie venga inserito in un progetto didattico solido e implementato con cura.

Il testo di Carmelo Farinella si muove entro questo orizzonte: a partire da salde competenze musicali e dall’approfondito esame di alcuni programmi informatici disponibili sul mercato, avendo presente la gamma di problemi che studenti dislessici possono incontrare nell’educazione musicale, propone vie che paiono percorribili per far fronte al disturbo, se vogliamo metterci in un’ottica compensativa, o per raggiungere obiettivi di apprendimento per tutti, se preferiamo un approccio orientato ai dettami della Progettazione Universale e dello Universal Design for Learning.

La sua lettura non sarà risolutiva e non offrirà quella bacchetta magica della quale prima si diceva, ma è un’acuta e originale introduzione, buon viatico per chi voglia affrontare il problema dell’educazione musicale con soggetti affetti da disturbi dell’apprendimento e che non scordi la necessità – e anche l’obbligo morale – di vestire prima di tutto i panni del buon maestro per riuscire ad affrontare il compito che l’attende.

Bibliografia

Astin, A.W. (1997), What matters in college? Four critical years revisited, Jossey-Bass, San Francisco, CA, USA.

Baroni, F., Lazzari, M. (2013), Quale libro di testo digitale? Una ricerca sul campo tra User Centered Design e Progettazione Universale, Didamatica 2013, Pisa, 7-9 maggio 2013.

Bernard, R.M., Abrami, P.C., Lou, Y., Borokhovski, E., Wade, A., Wozney, L., Wallet, P.A., Fiset, M., Huang, B. (2004), How does distance education compare to classroom instruction? A meta-analysis of the empirical literature, Review of educational research, 74, 3, pp. 379-439.

Bronfenbrenner, U. (1979), The ecology of human development. Harvard University Press, Cambridge, MA, USA.

Calvani, A. (2012), Per un’istruzione evidence based, Erickson, Trento.

CAST (Center for Applied Special Technology) (2011), Universal Design for Learning Guidelines version 2.0, CAST, Wakefield, MA, USA.

Clark, R.C., Lyons, C. (2010), Graphics for learning, 2a ed., John Wiley & Sons, Hoboken, NJ, USA.

Clark, R.C, Nguyen, F., Sweller, J. (2006), Efficiency in learning, John Wiley & Sons, Hoboken, NJ, USA.

CUD (Center for Universal Design) (1997), The principles of Universal Design, http://www.ncsu.edu/www/ncsu/design/sod5/cud/about_ud/udprinciplestext.htm.

Dillon, A., Gabbard, R. (1998), Hypermedia as an educational technology: a review of the quantitative research literature on learner comprehension, control, and style, Review of educational research, 68, 3, pp. 322-349.

Fabos, B., Young, M.D. (1999), Telecommunications in the classroom: rhetoric versus reality, Review of educational research, 69, 3, pp. 217-259.

Hattie, J. (2009), Visible learning: a synthesis of over 800 meta-analyses relating to achievement, Routledge, London.

Lazzari, M. (2006), Le frecce di Basilea e le faretre degli informatici, in G. Bertagna (a cura di), Scienze della persona: perché?, Rubbettino, Soveria Mannelli.

Lee, M.J.W., Miller, C., Newnham, L. (2009), Podcasting syndication services and university students: Why don’t they subscribe?, Internet and higher education, 12, 1, pp. 53-59.

Mayer, R.E. (2005), The Cambridge handbook of multimedia learning, Cambridge University Press, Cambridge, UK.

OECD (2005), Teachers matter: attracting, developing, and retaining effective teachers, OECD Publishing, Paris, Francia.

ONU (2007), Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ONU, New York, NY, USA.

Papert, S. (1980), Mindstorms: Children, Computers, and Powerful Ideas. Basic Books, New York, NY, USA.

Rose D., Meyer A. (2002), Teaching every student in the digital age: Universal Design for Learning, ASCD, Alexandria, VA, 2002.

Russell, T.L. (2001), The no significant difference phenomenon, 5a ed., IDECC, Chicago, IL, USA.

Stella, G., Grandi, L. (2011), Come leggere la dislessia e i DSA, Giunti Scuola, Milano.


[1] All’epoca non aveva ancora preso piede la sostituzione politicamente corretta di man-machine interface con human–machine interaction.

[2] Le applicazioni essendo limitate al calcolo tecnico / scientifico / finanziario.

[3] Ormai letteralmente, con lo sviluppo dell’informatica mobile, della telefonia intelligente e della connettività ubiqua.

[4] Per programmi di produttività individuale si intendono gli applicativi come quelli raccolti nelle suite Office o OpenOffice (dunque programmi come Word, Excel, Power Point, Writer, Calc, …) destinati ad aiutare l’utente comune in compiti quali la videoscrittura, il calcolo, la gestione di presentazioni multimediali eccetera.

[5] Per esempio l’informatica embedded che monitora le prestazioni di un’autoveicolo o sceglie autonomamente in una lavatrice il tipo di lavaggio più adatto per un certo bucato.

[6] Il filmato ha l’audio in portoghese e i sottotitoli in spagnolo: proiettarlo in corsi di aggiornamento per insegnanti è sempre una buona mossa, perché i corsisti ne ricevono una duplice positiva sferzata: per il fatto di sentirsi più importanti delle tecnologie e perché riescono a capire facilmente una lingua sconosciuta (ai più).

Parole chiave: DSA, disturbi specifici dell’apprendimento, dislessia, pedagogia speciale, didattica, musica, educazione musicale, dislessia, disgrafia, miniaturizzazione, portabilità, trasparenza, ubiquità.

© Marco Lazzari, 2013